Cenni biografici. Arthur
Schopenhauer nacque a Danzica nel 1788. Ebbe un’educazione raffinata e poté viaggiare
molto, imparando diverse lingue straniere. A Weimar frequentò il salotto
letterario organizzato dalla madre e conobbe i migliori ingegni, come Goethe,
gli Schegel, etc. Molti erano i suoi interessi; ma alla fine decise di
laurearsi in filosofia, presso l'Università di Jena.
Grazie all'eredità lasciatagli
dal padre, poté vivere di rendita e dedicarsi completamente allo studio e alla
ricerca. Nel 1818 pubblicò il suo capolavoro più famoso, “Il mondo come volontà
e rappresentazione”. Pensò quindi di dedicarsi all'insegnamento universitario e
scelse Berlino, dove dominava la filosofia di Hegel: logicamente le sue lezioni
non furono seguite da nessuno ed egli si trasferì a Francoforte, dove rimase
per il resto della vita, continuando a studiare e pubblicare. Il successo
arrivò molto tardi, con la pubblicazione di “Parerga e paralipomena”. Morì nel
1860.
Il mondo come volontà e
rappresentazione. Il capolavoro del filosofo, del 1819, considera il mondo una
rappresentazione. È un’idea tipica della filosofia moderna: da Cartesio in poi,
i filosofi affermano che l’unica conoscenza certa è quella dentro la nostra
coscienza, perché non possiamo uscire da essa. Per Schopenhauer dunque il mondo
è solo una nostra rappresentazione. Ogni rappresentazione, ovviamente, ha due
elementi: il soggetto e l’oggetto. Sbaglia dunque il materialismo, perché riduce
tutto a oggetto; ma sbaglia anche l’idealismo perché riduce tutto a soggetto.
Il velo di Maya. Naturalmente il
mondo, che è nostra rappresentazione, è fenomeno; ma non come l’aveva inteso
Kant. Per Kant il fenomeno era una realtà, anzi l’unica realtà conoscibile. Per
Schopenhauer invece il fenomeno è una specie di illusione, che nasconde la vera
realtà delle cose. È come il “velo di Maya” del pensiero indiano. La vita è
come un sogno, un’apparenza, proprio come affermavano grandi pensatori di tutti
i tempi: i Veda, Platone, Shakespeare, Calderon de La Barca e così via.
La vera essenza: la Volontà. Ma,
oltre all’illusione, esiste la realtà vera. Essa può essere raggiunta, a
differenza del noumeno. L’uomo, che a differenza degli altri animali è un “animale
metafisico”, può interrogarsi sulla vera essenza della vita, scrutando dentro
se stesso. Tale essenza è la Volontà, un impulso fortissimo che spinge ad
esistere, ad agire. Essa pervade tutto l’universo ed ogni fenomeno è una sua
manifestazione.
La Volontà è al di là dello spazio,
del tempo, della causalità, in quanto al di là dei fenomeni. È anche inconscia perché
la coscienza è solo una delle sue possibili manifestazioni: non è la nostra
volontà cosciente, ma un impulso, presente anche nelle rocce e nei vegetali. Essa è unica, perché non è legata ai singoli
individui. È cieca, e senza scopo a parte se stessa. La Volontà vuole la
Volontà.
Il dolore e la noia. Se la vita è
volontà, la vita è anche dolore. Volere significa sentire la mancanza di
qualcosa che si desidera, e dunque sentire un vuoto, che non può che portare
sofferenza. L’uomo è il più sfortunato, perché in lui la Volontà è cosciente,
consapevole. E, fra gli uomini, il genio è colui che soffre di più, proprio perché
in lui la consapevolezza e la sensibilità è più alta.
Quello che chiamiamo gioia è solo
cessazione momentanea del dolore, per lo scarico di una tensione. Ma ad esso
segue un nuovo desiderio, e dunque nuovo dolore. Dunque il dolore è permanente,
il piacere è momentaneo. Esiste del resto una terza condizione, che è la noia,
che avviene quando non c’è desiderio o non si fa nulla.
Come un pendolo, la vita umana
oscilla tra il dolore e la noia.
Il pessimismo. Il pensiero di
Schopenhauer è un pessimismo cosmico radicale: non solo la vita è male, il
principio stesso dell’esistenza contiene il male. Il filosofo ovviamente è duramente
polemico verso tutte le filosofie ottimistiche e verso le religioni, che vedono
il mondo come un meccanismo perfetto, governato da Dio o da un altro principio.
È una visione consolatrice, certamente; ma del tutto falsa. In particolare,
Schopenhauer non può credere in Dio, perché non c’è spazio per un creatore
buono e razionale in un mondo che è male e caos.
L’amore. La vita è dolore anche perché
è guerra spietata di tutti contro tutti, in quanto ognuno è spinto alla propria
autoconservazione. Alla natura interessa solo la sopravvivenza della specie, e
quindi essa inganna gli uomini con l’amore; Cupido è “il signore degli dèi e degli uomini” perché dietro
a lui sta il freddo calcolo della specie. L’atto procreativo, secondo
Schopenhauer, è vissuto con vergogna non per motivi religiosi, ma perché commette
il reato più grave: il far nascere nuove creature condannate a soffrire.
L'amore per lui è “due infelicità
che si incontrano, due infelicità che si scambiano ed una terza infelicità che
si prepara!”.
La storia. Schopenhauer critica ogni
storicismo. Se andiamo oltre le apparenze, scopriamo infatti che “non vi è
nulla di nuovo sotto il sole”. La storia dell'uomo è sempre uguale: quello che
cambia non è l'essenza delle cose, ma solo la loro facciata superficiale. L’umanità
si illude, perché spera di eliminare il dolore cambiando le condizioni o
cercando il progresso. Ma è un inganno. L’unico vero compito della storia è
rendere l’uomo consapevole del suo vero destino.
La liberazione dalla Volontà. Quando
l’uomo capisce che il mondo è Volontà, è pronto per la salvezza, che coincide
con il cessare di volere. Liberarsi dalla Volontà – e dunque dal dolore – può avvenire
in tanti modi: suicidio, arte, morale, ascesi.
In realtà egli rifiuta il suicidio, perché esso resta un
atto della Volontà, e per giunta esso sopprime solo un individuo, una singola
manifestazione della Volontà. È dunque un atto inutile.
In quanto all'arte, essa è conoscenza pura disinteressata
che si rivolge alle idee, ossia alle forme eterne. Essa perciò sottrae l’uomo
dal giro vizioso dei desideri. Tra le arti spicca la tragedia, che esprime meglio
il dolore e l’affanno, e la musica, che rivela la volontà a se stessa. Però è
una liberazione momentanea, un conforto temporaneo.
La morale nasce da un sentimento
di pietà, in cui noi usciamo da noi stessi, compatiamo il nostro prossimo e
giungiamo ad identificarci col suo tormento. La pietà si concretizza in due
virtù: la giustizia (che ha un carattere negativo, in quanto consiste nel non
fare il male) e la carità (che è la volontà positiva di fare del bene). Ma
anche se è una vittoria sull'egoismo, è una vittoria voluta, dunque dipendente dalla
volontà.
La liberazione totale dalla
Volontà si potrebbe ottenere completamente solo con l’ascesi. Con l’ascesi l’individuo,
cessa di volere la vita. Il primo passo verso l’ascesi è la castità, che libera
dall'impulso alla propagazione della specie. Allo stesso scopo tendono la povertà,
il sacrificio, il digiuno, e così via. Qualora questo cammino fosse compiuto, l’uomo
sarebbe davvero libero. La volontà diventerebbe nolontà, e l’uomo giungerebbe
al nulla, in un oceano di pace dove si dissolverebbe l’io. Ma forse è un
obiettivo impossibile da raggiungere: dal momento che il mondo continua a
esistere, dal momento noi continuiamo ad esistere, la Volontà non è stata ancora
vinta.